Il ballo della povera donna (Dove comincia l'Appennino)
Dove comincia l'Appennino. Musica
Documentato nelle valli Staffora, Curone e Borbera, vale a dire sui
versanti pavese e alessandrino delle Quattro Province, la "Povera
donna" è un ballo arcaico tuttora frequentemente eseguito in
occasione delle numerose feste tradizionali "da piffero" che
si svolgono nei paesi. Tuttavia, solo a Cegni, nell'alta val Staffora,
il ballo ha conservato la sua cornice rituale di carattere carnevalesco.
Il 16 agosto, il ballo viene eseguito durante il cosiddetto "Carnevale
bianco", in un contesto rappresentativo e folcloristico, mentre, da
oltre vent'anni, ha recuperato una dimensione funzionale attraverso la
sua ricollocazione in periodo invernale (il sabato grasso), per iniziativa
delle nuove generazioni di suonatori e ballerini e con significativo seguito
da parte degli abitanti di Cegni come pure di appassionati e cultori della
tradizione locale provenienti da altri luoghi.
Il ballo della povera donna si colloca sull'orizzonte dei riti funebri pre-cristiani confluiti nella cultura carnevalesca, e presenta significative analogie con analoghe raffigurazioni coreutiche tuttora viventi. In Liguria, a Taggia sulla riviera di Ponente, nel mese di luglio in occasione della festa della Maddalena, u mas-ciu e a Lena inscenano il Ballo della morte dei Maddalenanti. Nella bolognese val Savena, il violino di Melchiade Benni suscitava il Barabein, come lo Scuciòl ballo di rinascita carnevalesca. Nucleo coreutico e simbolico è, in entrambi i casi, una danza di corteggiamento, la morte apparente della maschera maschile, nel caso del Barabein, femminile nel caso del Ballo della Morte, con il conseguente lamento del compagno attorno alla figura inerte del defunto coniuge, lamento accompagnato da una gestualità ambigua, tra il compianto e lo scherno; segue il repentino ritorno in vita del finto morto, ed il prosieguo della danza interrotta. Ancora, in tempo di carnevale, ballano il viei e la vieio della beò di Blins (Bellino), in provincia di Cuneo, e qui sarà la vecchia a stramazzare al suolo interrompendo la danza con il vecchio patriarca della famiglia carnevalesca, per poi tornare in vita dopo l'intervento di un grottesco medico, e riprendere l'interrotta danza suggellando il passaggio armonizzante di barriere di legno frapposte al cammino della comunità. Nella trentina valle dei Mòcheni, etnìa germanica, il bècio e la bècia intervallano il loro percorso di visita augurale alle case del paese con la danza che vede le due maschere alternarsi nell'inscenare morte e resurrezione, ogni volta lasciando scaturire dalle vesti un grottesco testamento, topos tipicamente carnevalesco.
Le ascendenze storiche
Nella sua "Storia della danza" (Milano: 1966), Curt Sachs riporta la seguente testimonianza:
Una volta vidi, durante un funerale, in una città ungherese, una strana danza. Una persona giaceva in mezzo alla stanza con mani e piedi allargati. La sua faccia era coperta con un fazzoletto. Egli giaceva lì senza muoversi minimamente, poi venne chiamato quello che guida la danza funebre con la cornamusa. Appena si cominciò, uomini e donne cominciarono a girare cantando e mezzo piangenti, intorno a colui che giaceva a terra, gli ponevano le mani sul petto, gli riunivano i piedi, lo rivoltavano ora sul ventre, ora sul dorso e facevano con lui ogni sorta di cose. Finalmente lo sollevavano piano piano e danzavano con lui, cosa spaventosa a vedersi poiché questi non si muoveva affatto, ma lasciava che gli altri gli muovessero le membra per lui. Io rimasi sbalordito e anche in occasione di un matrimonio vidi eseguire tale orribile rappresentazione come un divertimento o un gioco carnevalesco e mi fu riferito che una volta Dio punì colui che l'aveva messo in scena: quello che doveva fare il morto morì veramente e morto rimase a giacere.
Quest'antico testimone ci parla di una danza inserita in un contesto di morte e resurrezione, con quelle manifestazioni di ambivalenza tra ilarità e pianto, allegrezza e lutto, che ritroviamo in numerosi carnevali ancora vivi in forme tradizionali, come quello di Schignano, borgo della val d'Intelvi, in provincia di Como, che ha al centro del suo svolgimento il pupazzo-uomo detto Carlisèp, il quale sorprende i presenti con le sue fughe prima d'essere arso sul consueto rogo catartico. Ernesto De Martino riporta due esempi di danza di morte e resurrezione all'interno del suo discorso sul Pianto antico ("La terra del rimorso" -- Milano: 1994). Il primo di questi esempi è tratto dall'opera di Antonio Bresciani, "Dei costumi di Sardegna comparati cogli antichissimi popoli orientali". Bresciani così descrive il momento culminante del ballo da lui osservato nella tenuta di Geremas, "luogo solitario ed ermo sul mare":
Allora fu il girare più avvivato, ché passò ben presto a concitazione; ed ecco un giovinetto scagliarsi improvviso nel mezzo del cerchio, ed ivi contendersi, divincolarsi, balenare e cadere tutto lungo in terra: e i danzatori battere il suolo rinforzati, e tragittar le braccia, e percuotersi con le proprie mani e colle mani de' compagni la fronte; attorno al caduto s'inginocchiano, s'accerchiano, s'ingroppano, fan viluppo; indi si sbaragliano, s'attraversano, si confondono con simulata baruffa a legge, e colla maggior grazia che mai, dando mostra d'un cruccio disperatissimo. In questo mezzo la lionedda spicca un suono allegro, e spiritoso, e il morto giovinetto guizza in pié, batte le mani, leva e trincia una caprioletta leggera, mentre tutta la brigata, dato già quel furore, ricompone il passo, assesta il cerchio, e rapidissima galoppa, e scambietta, e si diguazza in un tripudio fiorito. Poi rimettono la carola a tondo, e diveltisi dalla corona a due a tre, danzano in atto carezzevole dinanzi al risorto donzello, il quale ballonzola e porge le mani a questo, e a quello. E così i primi, dato un salto indietro, si ricongiungono con gli accerchiati, ed altri muovono a misura in mezzo a rinchinare e riverire il giovine ravvivato.
La seconda descrizione, poco dopo riferita dallo stesso De Martino, ci riporta in ambito funerario:
Un tempo in Westfalia durante i funerali una persona si collocava al centro dela stanza mortuaria, e mentre i presenti danzavano si lasciava cadere a terra simulando la rigidità della morte. A questo punto seguiva il lamento funebre e il bacio rituale al finto morto: se chi sosteneva le parti era un uomo, le donne si recavano a turno a baciarlo, se era donna l'atto spettava agli uomini. Esaurita la cerimonia dei baci veniva eseguito un ballo tondo finché il finto morto al centro del cerchio si rialzava, mescolandosi alle danze.
Giraldo Cambrense ("Itinerarium Cambriae": sec. XII) ci lascia una descrizione di quegli "obscoeni motus", "saltationes seu choreae" che avevano abitualmente luogo nei cimiteri e contro i quali si scagliarono ripetutamente le condanne dei concili:
Si possono vedere uomini e donne che danzano in circolo, ora in chiesa, ora dentro la cinta del cimitero, ora fuori tutt'intorno ad esso. Improvvisamente, essi si gettano a terra come in preda all'estasi e rimangono immobili. Poi saltano su come presi da furore e si mettono a rappresentare con i piedi e le mani i lavori proibiti nei giorni festivi.
Ugualmente ben rappresentato nelle antiche danze è il tema del corteggiamento, centrale nel ballo della povera donna, come pure nel Barabein e nel ballo del morto dei Maddalenanti di Taggia. Sachs riporta la descrizione di una danza associata al saltarello romano e alla tresca toscana:
Questa descrizione ci mostra il danzatore inginocchiato in adorazione della sua compagna e poi, come se non ne potesse più, allontanarsene; con mille giravolte e scherzi la tiene ora a distanza, ora invece si slancia su di lei. I suoi salti e le sue capriole sono grotteschi e per affascinarla pieni di leggerezza e di flessuosità. Il suo modo di fare è fiero e risoluto, contrariato e seducente. Gambe e braccia, perfino le dita che tambureggiano, rafforzano le sue espressioni, ma soprattutto lo sguardo diviene ardente, languido, insolente e sfacciato. La fanciulla viene fuori dal suo angolo ora ritrosa, ora docile. Il suo sorriso è eloquente, i suoi occhi ebbri; fa oscillare la gonna come un'altalena, ne afferra un lembo come volesse raccogliervi qualcosa, oppure solleva il braccio in modo che la mano penda sciolta sul capo, come se fosse attaccata a un uncino, mentre l'altra è premuta sul cuore. Così la fanciulla è l'asse attorno al quale ruota il danzatore.
Il carnevale di Cegni
Oggi il carnevale di Cegni offre, come si è accennato, un duplice
svolgimento, nella collocazione folcloristica e spettacolare in periodo
estivo (16 agosto), e in quella, che potremmo definire "funzionale",
in periodo invernale. Nel primo caso si ha una spettacolarizzazione intenzionale
dell'evento carnevalesco, "rappresentato" piuttosto che agito;
nel secondo caso un vero e proprio rito, interno alla comunità,
sebbene meno completo del primo, nel suo svolgimento, rispetto alle modalità
tradizionali. Al "Carnevale bianco", evento che richiama centinaia
di persone ogni estate e che, a dispetto della veste formale, si discioglie
poi nelle modalità di un'autentica festa tradizionale, va sicuramente
il merito di aver tenuta viva l'immagine e la memoria dell'antico rito
carnevalesco; è però il carnevale d'inverno, pur nella sua
forma semplificata, a restituire significato culturale e pregnanza simbolica
all'evento. Il sabato grasso, a metà pomeriggio, ha inizio il percorso
della famiglia carnevalesca, davanti alla casa della povera donna, grottesca
sposa protagonista principale, con l'altrettanto inquietante marito, del
rito.
![l'uscita di casa della povera donna : Cegni : carnevale bianco 2001? / Paolo Ferrari: foto](http://www.appennino4p.it/poveradonna7.jpg)
Oh pôvra dôna mi, che mi è morto il me Tugnin...
Nella gran parte delle versioni documentate, il ballo della povera donna, diversamente dagli altri esempi di balli carnevaleschi di morte e resurrezione di cui abbiamo parlato, non prevede propriamente un momento di totale inerzia del ballerino, un giacere a terra a guisa di cadavere; sembra invece prevalere un simbolismo di tipo erotico, la simulazione dell'abbraccio amoroso, una morte allegorizzata dalla rappresentazione del suo eterno opposto, oppure un'azione di rigenerazione di un principio declinante ad opera di un apporto vitalistico. L'aspetto di coreutica funebre, che lo assimila al barabein della val Savena e al ballo dei Maddalenanti di Taggia, era invece ben evidente nella versione eseguita un tempo in val Grue, a Garbagna, stando alla testimonianza di Egidio Rovelli. Secondo tale testimonianza il "marito", stramazzato al suolo, "tira gli stinchi, si allunga lì, e la moglie disperata gli gira intorno tirandosi i capelli e dice (cantato a tempo di monferrina):
Oh pôvra mi
che mi è morto il me Tugnin,
oh pôvra dôna mi
che mi è morto il me Tugnin..."
Oh i me du sôld,
o pôvra dôna,
è morto 'l me Tognin
che gh'l âva csì de bzôgna.
L'interpretazione: dall'aneddoto al simbolo vissuto
Una seconda testimonianza, dovuta alla figlia del pifferaio Fiorentin, può, dietro al velo dell'interpetazione aneddotica, introdurci ulteriormente nel nucleo di senso del ballo della povera donna:
Mio padre la suonava sempre la povera donna, e ce lo diceva: è una donna che ci hanno ucciso suo figlio, allora lei piange... e si inginocchia per terra così, si dispera... e poi canta "Oh i me du sôld, oh pôvra dôna, è morto 'l me Tognin che gh'l ava csì de bzôgna", e poi si alzano in piedi e ballano...
(La tradizione del piffero della montagna pavese / Aurelio Citelli, Giuliano Grasso (( Pavia e il suo territorio -- Silvana editoriale: Milano: 1990)
Quei "du sôld" esprimono nei modi spicci del dire popolare il dramma di una mancanza, un venir meno esiziale, un declino cosmologico, sia esso scandito da ritmi solari o lunari, da cicli vegetativi, ma comunque al centro del quale, ineluttabilmente, dimora l'uomo con il suo destino. Ed è un destino sociale, quello dell'incontro amoroso, cantato quassù dagli arcaici stranôt del rito matrimoniale, e quindi parodiato, per necessario contrappeso, nell'accoppiamento grottesco, umoroso fino all'oscenità, del ballo carnevalesco. Ma è anche un destino cosmico, quello di incontri di principi vitali, polarità di cielo e terra, avvicendarsi di stagioni, vissuti con la stessa sensibilità fatale dalle genti contadine di tutto il mondo. Nella fuga e cattura della "povera donna" traluce l'antico rifiuto della fanciulla strappata al grembo famigliare, il "ratto" degli antichi miti di fondazione, come pure istintivi moti di ripulsa verso necessitanti convenzioni sociali e destini di quotidiane oppressioni. Questo rifiuto è poi tutt'uno con uno slancio negativo che ha proporzioni cosmiche; una coazione a resistere all'ineluttabile, alla consunzione come pure al rinnovamento e alla rinascita, disciolta infine nella danza armonizzante.
Nel ballo della povera donna troveremo confusi i temi del corteggiamento, della seduzione e della ripulsa, di eros e thanatos, il risorgere ad un nuovo status sociale e la rinascita della natura, in un inestricabile gioco di rimandi che infine ne dissolve la distinta coerenza.
basato sull'articolo
Il ballo della povera donna / Paolo Ferrari
(World music magazine. 54: maggio-giugno 2002).
La povera donna [...] è generalmente suddivisa in tre parti coreutiche: una prima parte (in 6/8) di spostamenti nello spazio dove i ballerini paiono inseguirsi e "studiarsi", una seconda parte detta "lamento", accompagnata da una musica lenta, nella quale si abbracciano e scendono piegandosi sulle ginocchia fino a toccare terra e a volte fino a rotolarvisi, una terza parte (in 6/8), in cui i ballerini si rialzano di scatto ed eseguono il balletto. [...]
Tutte le versioni del ballo finora conosciute contengono, in modo più o meno marcato, chiare allusioni al corteggiamento e all'atto sessuale unite a una mimica di morte. Si tratta con evidenza di una danza che si inserisce a pieno titolo nell'arcaico filone dei balli rituali simboleggianti la morte e la resurrezione del Carnevale, personificazione della morte e rinascita della natura, dicui abbiamo altri esempi in Italia come il ballo del Baraben e lo Scuciòl nell'Appennino Bolognese e il ballo della Morte di Taggia. Ne ritroviamo ampie testimonianze anche in tutto il folklore europeo: nella figura della morte e resurrezione del buffone nella Schwerttanz (danza della spada) tedesca, nelle danze funebri citate da Sachs ecc. [...]
Il tema del legame tra morte e atto sessuale su cui la povera donna è costruita, oltre che appartenere al patrimonio simbolico rituale delle società agrarie, è ben radicato nel subconscio individuale e collettivo. Nel ballo della povera donna, come in analoghe danze esistenti nei patrimoni coreutici europei, i due motivi sono collegati da una struttura narrativa che prevede: fase introduttiva: corteggiamento mimato senza contatto; fase centrale: corteggiamento o azione sull'elemento "maschile" con fasi di contatto; fase centrale il ballo "vero e proprio" (fase attiva). [...] Morte e pianto rituale ricompaiono man mano che il ballo si "ripulisce" del contenuto sessuale esplicito. Altresì interessante è notare come l'elemento sessuale sia più esplicito nelle danze ad esecuzione collettiva o di gruppo, mentre prenda il sopravvento il motivo della morte-resurrezione nelle esecuzioni pantomimiche svolte da coppie di fronte alla comunità che vi assiste.
(Osservazioni sui balli "da piffero" / A
Scarsellini, P Staro, M Zacchi
(( Pavia e il suo territorio / R Leydi, B Pianta, A Stella : cura
-- Silvana : Milano: 1990)
Il ballo della povera donna (Dove comincia l'Appennino) / redazione ; © autori -- <https://www.appennino4p.it/poveradonna.htm> : 2004.01 - 2004.03 -