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E non c’è trucco! Mario Perniola

  • ️Sat May 17 2008

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La battaglia per la bellezza
di
MARIO PERNIOLA

Quella del bello è oggi una categoria più popolare della verità e della virtù e il narcisismo e diventato una patologia sociale. Ecco perché lottare per una estetica e non per la cosmetica.
La bellezza pare a prima vista il concetto più adatto per gettare un ponte tra l’atmosfera cosmetico-ricreativa in cui sono immerse le moltitudini dei paesi ricchi e la tradizione culturale. In altre parole, la bellezza sembra più «popolare», più connessa con il sentire delle masse di quanto non sia la verità o la virtù. Infatti ben pochi si curano della coerenza dei loro pensieri e ancor meno della purezza delle loro azioni, ma tantissimi si interrogano sulla avvenenza del loro volto e del loro corpo, affollano palestre, comprano cosmetici, intraprendono diete, ricorrono addirittura alla chirurgia plastica per diventare più belli ed attraenti. La bellezza sembra in grado di fornire, per così dire, un aggancio tra le masse e il sapere.

Tuttavia, che cosa ha che vedere tutta questa infatuazione collettiva con la filosofia? e più specificamente con la plurimillenaria riflessione filosofica intorno alla nozione di bellezza? Mi piacerebbe poter affermare che il libro di Santayana Il senso della bellezza va a ruba (mentre in realtà non è acquistato nemmeno dalle biblioteche di filosofia), oppure che Benedetto Croce sta al vertice delle classifiche degli autori più venduti (mentre la riedizione delle sue opere incontra tante difficoltà). Ma come tutti sanno al culto della bellezza personale non corrisponde affatto non dico un interrogativo, ma nemmeno una curiosità intorno a che cos’è il bello: le moltitudini estetizzanti ritengono di saper benissimo come devono fare per diventare più belle e di non aver veramente niente da imparare di utile dai filosofi su questo argomento. Dal loro punto di vista, non si può dire che abbiano torto.

Fatto sta che il rapporto tra la nozione di bellezza e le moltitudini estetizzanti non è così diretto ed immediato come vorremmo. Esso passa attraverso una patologia sociale, ben nota e studiata da decenni, che si chiama narcisismo. Questa malattia psichica ha per l’affettività contemporanea un’importanza paragonabile a quella dell’isteria e delle nevrosi al tempo di Freud. Il suo aspetto caratteristico è il primato dell’immagine sulla realtà in tutte le pratiche della comunicazione privata e pubblica: è chiaro che a partire dal momento in cui l’elaborazione dell’immagine e il suo controllo diventa la preoccupazione fondamentale, cade ogni possibilità di astrazione e di pensiero critico. Infatti il narcisismo non è affatto amore di sé: lo spostamento verso la propria immagine si effettua al prezzo di un totale annullamento della vita individuale e della sua realtà. Come ha mostrato Christopher Lasch nel suo libro La cultura del narcisismo (Bompiani, Milano, 2001), che riprende da un punto di vista sociologico le tesi di psicoanalisti come Heinz Kohut e Alexander Lowen, il narcisismo contemporaneo implica una completa negazione della propria identità affettiva. L’individuo narcisistico è incapace di provare emozioni intense e personali.

La sua vita affettiva è vuota. L’unica possibilità di trovare un vero interesse alla vita – impossibilità che caratterizza il modo di essere narcisistico – è proprio l’opposto dell’impegno personale che caratterizza l’individualismo moderno. L’amplificazione iperbolica dell’immagine dell’io a detrimento della sua realtà conduce così ad un totale appiattimento sui modelli proposti dalla pubblicità, dalla televisione e dalla moda, che ha assunto nel corso degli ultimi tempi l’aspetto di una catastrofe culturale, politica e sociale, in cui sono coinvolte l’arte e la scienza, non meno della filosofia e della religione. Nei confronti delle patologia psico-sociali di stampo oscurantistico l’estetica marxista ha fornito due differente diagnosi, rispettivamente rappresentate dal filosofo ungherese Gyorgy Lukacs e da Antonio Gramsci. Il primo fu decisamente più ottimista del secondo nel valutare l’effetto della propaganda, della pubblicità e in genere dell’intrattenimento edonistico-ricreativo. Infatti secondo Lukacs, solo l’arte costituisce la massima potenza culturale, l’unica capace di esercitare un’influenza profonda e duratura: essa rivolge al pubblico un’ingiunzione che lo riguarda direttamente e lo invita perentoriamente a rendere la sua vita più ricca e significante, mentre la comunicazione di massa si distingue per la limitatezza e la provvisorietà del suo influsso.

Gramsci invece, più pessimisticamente, ritenne che la degradazione culturale e l’oscurantismo che l’accompagna, non debbano essere sottovalutati: per esempio il romanzo d’appendice, il gusto melodrammatico, l’oppiomania fantasiosa (insomma gli equivalenti nel suo tempo del narcisismo mass-mediatico odierno) esercitino un’influenza molto maggiore dei prodotti culturali in qualche modo connessi con le istituzioni. Perciò il grande insegnamento di Gramsci è consistito nell’invito a cercare sempre un aggancio tra il sentire per quanto degradato, distorto e alterato delle moltitudini da un lato e la teoria critica della società dall’altro. Da questa posizione gramsciana è derivata quell’attenzione ai fenomeni culturali di massa che ha caratterizzato il marxismo italiano.

La grande questione oggi è: esiste ancora la possibilità di questo aggancio? a partire da quale momento lo studio e la sollecitudine verso le espressioni popolari si trasforma nell’apologia dell’ultima scemenza comparsa sulla scena dei media? perché l’impegno democratico si trasforma tanto spesso in oscurantismo populistico? in quale punto dell’organizzazione culturale cessa il riscatto teorico e comincia la resa agli indici di ascolto e al mercato? Certamente non si può imputare a Gramsci l’incongruenza e la sconclusionatezza di tanti sedicenti operatori culturali di oggi. Gramsci non ha mai pensato che l’intellettuale «organico» debba favorire la vanità o essere agganciato alle idiozie.

La difficoltà di trovare oggi un aggancio credibile consiste probabilmente nel fatto che non è più negli interessi del capitalismo coinvolgere tutti in un processo di miglioramento e di promozione intellettuale e materiale. Nel quadro della new economy è dubbio che sia ancora necessario o opportuno garantire all’intera società un medio livello di istruzione e di sapere critico. La decadenza della qualità dell’insegnamento fornita dal sistema scolastico ed universitario quasi in ogni parte del mondo, unita al trionfo della credulità e della superstizione, mostra che il movimento di diffusione del sapere messo in moto dall’illuminismo nel XVII secolo conosce una battuta d’arresto. Il fatto è che per l’industria dell’intrattenimento, la trasmissione su larga scala del patrimonio culturale dell’Occidente, che ha le sue massime realizzazioni nell’arte, nella scienza e nella filosofia, è qualcosa di troppo dispendioso,perché presuppone appunto la formazione (nel senso classico dì Bildung) di un pubblico capace di comprenderlo e di apprezzarlo. Si procede perciò in modo molto più spedito e redditizio trasformando le mostre d’arte in luna park, le conquiste della conoscenza in fantascienza, il pensiero critico in edificazione new age, le scuole e le università in burocrazie senza energia emozionale, per non parlare del resto. In altre parole, la possibilità dell’aggancio derivava dal fatto che il mantenimento e lo sviluppo della cultura e dell’educazione era un aspetto essenziale dei progetto capitalistico.

Tendo perciò a credere che una politica culturale progressista passi oggi non attraverso la ricerca di un aggancio che si regge irrimediabilmente sull’equivoco e sul fraintendimento, bensì attraverso operazioni di sganciamento dall’atmosfera cosmetico-ricreativa e oscurantista in cui siamo immersi. In altre parole se vogliamo parlare di bellezza, deve essere chiaro che impieghiamo questa parola in un senso che non ha niente a che fare con le palestre, con le diete, con i concorsi di Miss Italia, con tutta la sdolcinatezza e la leziosità su cui si regge oggi la ricerca di un consenso plebiscitario.

Esiste oggi una strana convergenza tra l’approccio essenzialistico e l’approccio ingenuo alle parole del sapere, convergenza che si regge sull’equivoco. Dato che sulla bellezza si pensa e si scrive da duemila e cinquecento anni, solo un ignorante può credere che alla domanda sulla sua essenza sì possa rispondere con una definizione o con una formula. Dietro l’approccio essenzialistico si cela un’ultima degenerazione del gramscismo, che spera di trovare l’aggancio con le masse attraverso un’estrema semplificazione essenzialistica.

Se vogliamo continuare la grande impresa pedagogica iniziata da Gramsci, occorre invece adottare un approccio connessionistico, cioè porre la questione della bellezza all’interno dell’orizzonte estetico. L’esistenza di questo dipende dall’esistenza simultanea di quattro
elementi: il bello, l’arte, la filosofia e lo stile di vita esemplare. Ognuno di questi è in sé molto problematico e può essere declinato in molti modi. Per esempio, come variazioni del bello sono da considerarsi il sublime, il grazioso, il sottile, l’interessante, il raffinato e altre nozioni prossime. Anche gli stili di vita esemplari sono stati estremamente vari: dall’eroe al santo, dal martire al dandy, dal filosofo alla «femme fatale», dal poeta alla «sexual persona» combinandosi in moltissimi modi.

L’ampiezza dell’orizzonte estetico non implica tuttavia che esso possa contenere tutto: si tratta infatti di un orizzonte. Come dice l’etimologia della parola (dal greco orízo, limitare, segnare i confini), esso si determina sulla base di ciò che esclude. Innanzi tutto non mi sembra che si possa parlaredi orizzonte estetico se manca l’idea di uno degli elementi indicati. Un mondo in cui si sia completamente ignari delle coppie antinomiche bello-brutto e arte-non arte, è estraneo all’orizzonte estetico. Con ciò non voglio dire che ci si debba pronunciare a favore del bello o a favore dell’arte, ma soltanto che è necessario essere consapevoli di ciò che queste nozioni hanno significato nel corso della storia: l’attacco che l’arte contemporanea ha portato alla nozione di bellezza fa parte a pieno titolo dell’orizzonte estetico; la stessa cosa si deve dire a proposito delle teorie della fine o della morte dell’arte o dell’anti-arte del Novecento. Parimenti un mondo in cui il posto della filosofia è stato preso interamente dalla tecnica o dal fanatismo, ha soppresso l’orizzonte estetico: fanno invece parte di questo le critiche che gli artisti e i poeti hanno spesso rivolto alla filosofia. Infine la mancanza di modelli di vita esemplare impedisce il sorgere dell’ammirazione, la quale costituisce la più potente leva del coinvolgimento estetico: non a caso l’educazione è stata riconosciuta come un elemento essenziale dell’orizzonte estetico. Tuttavia le tendenze contro-culturali, che si sono manifestate per esempio durante la contestazione della seconda metà del Novecento, fanno parte dell’orizzonte estetico.

Raramente è accaduto che i quattro elementi che fanno parte dell’orizzonte estetico siano
andati d’accordo fra loro: questa situazione si è verificata nel Settecento ed è in stretto rapporto col movimento neo-classico e con la costituzione dell’estetica come disciplina autonoma. E’ allora che la bella natura, l’arte bella, il bel pensare e l’educazione estetica hanno stabilito tra loro un patto vincolante. Tuttavia limitare l’orizzonte estetico a quel particolare momento storico, considerando come preistoria dell’estetica tutto ciò che precede e decomposizione dell’estetica tutto quello che segue, è troppo restrittivo e anche troppo noioso. Del resto anche in piena età neoclassica si sono levate voci contrarie a questo accordo, che ha avuto peraltro una durata molto breve.

Per queste ragioni ritengo molto più proficuo considerare l’orizzonte estetico come un campo, in cui quattro contendenti (il bello, l’arte, la filosofia e lo stile di vita esemplare) si fronteggiano, confrontano e sì affrontano tra loro dando luogo alle più varie situazioni strategiche. L’orizzonte estetico perciò non è affatto un luogo simbolico di pace e dì armonia; esso è caratterizzato da un dinamismo permanente che dì tanto in tanto si manifesta in aperti conflitti, ma che è sempre attraversato da tensioni ed attriti.

articolo pubblicato su L’Unità del 15 settembre 2002, e presente sul sito http://www.swif.uniba.it/lei/index.html

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