Interplanetary Monitoring Platform G - Wikipedia
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Interplanetary Monitoring Platform G | ||||
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Immagine del veicolo | ||||
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Dati della missione | ||||
Operatore | NASA | |||
NSSDC ID | 1969-053A | |||
SCN | 03990 | |||
Vettore | Delta E1 | |||
Lancio | 21 giugno 1969, 08:47:58 UTC | |||
Luogo lancio | Complesso di lancio 2, base aerea Vandenberg | |||
Fine operatività | 23 dicembre 1972 | |||
Rientro | 23 dicembre 1972 | |||
Proprietà del veicolo spaziale | ||||
Massa | 79 kg | |||
Costruttore | Goddard Space Flight Center | |||
Strumentazione | Magnetometro fluxgate, radiofaro, sonde di Langmuir | |||
Parametri orbitali | ||||
Orbita | Geocentrica, altamente ellittica | |||
Apogeo | 176827 km[1] | |||
Perigeo | 344,6 km | |||
Periodo | 1 986 minuti[1] | |||
Inclinazione | 86,8° | |||
Eccentricità | 0,89132 | |||
Programma Explorer | ||||
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L'Interplanetary Monitoring Platform G, a volte citato anche come Explorer 41 o con l'acronimo IMP G o IMP 5, è stato un satellite artificiale NASA lanciato nel giugno 1969. È stato il settimo satellite del programma Interplanetary Monitoring Platform, iniziato nel 1963 ed avente lo scopo di ricavare informazioni sul plasma e il campo magnetico interplanetari, ma è comunque spesso indicato come "IMP 5" essendo i precedenti satelliti Interplanetary Monitoring Platform D ed E, spesso considerati parte del sottoprogramma "Anchored IMP" (IMP D ed E sono infatti noti anche come AIMP 1 e 2).[2]
Il satellite del programma IMP che precedette il lancio dell'IMP G fu l'IMP E, lanciato nel luglio 1967, tuttavia la struttura dell'IMP G fece uso del design del satellite Interplanetary Monitoring Platform F che, nonostante il nome faccia supporre il contrario, fu lanciato nel maggio 1967, tre mesi prima dell'IMP E.
Lo scopo principale dell'IMP G era quello di portare avanti gli studi effettuati dai suoi predecessori effettuando misurazioni più dettagliate e precise nello spazio cislunare. A differenza dei primi satelliti del programma IMP, però, l'IMP G, così come anche l'IMP F prima di lui, fu lanciato quando ci si attendeva che l'attività solare avrebbe raggiunto il suo picco. Dati anche i miglioramenti introdotti grazie alle esperienze dei satelliti precedenti, il tempo di vita utile degli IMP F e G fu esteso da uno a due anni.
Come già i satelliti precedenti, rispetto a cui ci fu comunque un notevole aumento della complessità della struttura, del sistema elettrico e degli strumenti scientifici, anche l'IMP G aveva una struttura principale ottagonale in alluminio, a cui erano agganciati quattro bracci, posti a 90° l'uno dall'altro, con all'estremità i pannelli solari utili a ricaricare la batteria, nonché il tubo di spinta del motore. Dalla struttura, larga 71 cm e alta 28,6 cm, partivano anche i due bracci in fibra di vetro lunghi 1,83 m e orientati in direzione opposta che avevano alle loro estremità uno un magnetometro e l'altro una semplice zavorra a fare da bilanciamento (nell'IMP F era invece presente un magnetometro all'estremità di ogni braccio). Il Platform G recava con sé 12 esperimenti (uno in più dell'IMP F) dedicati all'analisi delle particelle costituenti i raggi cosmici, il vento solare e presenti nella magnetosfera, per cui utilizzava, tra le altre cose, delle sonde di Langmuir, nonché all'analisi del campo magnetico interplanetario, per cui utilizzava un magnetometro fluxgate.[1][3]
Una volta messo in orbita il satellite era stabilizzato utilizzando la tecnica di stabilizzazione di spin,[4] una tecnica di stabilizzazione passiva nella quale l'intero veicolo ruota su se stesso in modo che il suo vettore di momento angolare rimanga pressoché fissato nello spazio inerziale.[5] Il movimento di rotazione è stabile se il satellite gira attorno all'asse che ha momento d'inerzia massimo.[5] Nel caso dell'IMP G, la velocità di rotazione era inizialmente di 27,5 giri al minuto (rpm) ma, a causa della pressione della radiazione solare si rilevarono diverse variazioni in essa. L'asse di spin, invece, era stato posto perpendicolare al piano dell'eclittica.[1][6]
L'Interplanetary Monitoring Platform G venne lanciato il 21 giugno 1969 per mezzo di un razzo Delta E dal complesso di lancio 2 della base aerea Vanderberg, in California.
Dopo essersi stabilito in orbita, nonostante alcuni piccoli malfunzionamenti verificatisi subito dopo la partenza, come il malfunzionamento del "Plasma Experiment"[1] realizzato dall'Università del Maryland, il satellite iniziò ad inviare dati a terra con regolarità eccezion fatta per un intervallo di tempo compreso tra il 15 novembre 1971 e il 1º febbraio 1972, quando l'acquisizione dei dati fu limitata dalla vicinanza del foglio neutro della magnetosfera. Tra i dati raccolti, di particolare importanza furono quelli relativi alla più grande tempesta solare mai registrata al 2021, ossia quella avvenuta nell'agosto del 1972.[7]
Nel tempo, vari esperimenti dell'Interplanetary Monitoring Platform G smisero di funzionare (ad esempio, il 10 agosto 1969 l'analizzatore protonico sviluppato dall'Università dell'Iowa cessò improvvisamente le operazioni) ma 9 di essi, sui 12 totali, continuarono a raccogliere e inviare dati fino a poco prima del rientro atmosferico del satellite, avvenuto il 23 dicembre 1972.[6]
- ^ a b c d e The IMP Spacecraft, Its Orbits and Performance (PDF), in Interplanetary Monitoring Platform - Engineering History and Achievements, NASA, maggio 1980. URL consultato l'8 agosto 2021.
- ^ Explorer 34/IMP-4, su Spacecraft Encyclopedia, Claude Lafleur. URL consultato l'8 agosto 2021.
- ^ IMP G - Experiment Search Results, su nssdc.gsfc.nasa.gov. URL consultato l'8 agosto 2021.
- ^ IMP F, G (Explorer 34, 41), su space.skyrocket.de, Gunter's Space Pages. URL consultato il 10 agosto 2021.
- ^ a b Manuela Ciani, Studio del sistema di assetto del satellite AtmoCube tramite attuatori magnetici (PDF), su www2.units.it, Università degli studi di Trieste, 2003, p. 14. URL consultato il 6 agosto 2021 (archiviato dall'url originale il 1º dicembre 2017).
- ^ a b IMP G, su nssdc.gsfc.nasa.gov, NASA. URL consultato l'8 agosto 2021.
- ^ Delores J. Knipp et al., On the Little‐Known Consequences of the 4 August 1972 Ultra‐Fast Coronal Mass Ejecta: Facts, Commentary and Call to Action, in Space Weather, vol. 16, n. 11, 2018, pp. 1635-1643, DOI:10.1029/2018SW002024.
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