L’insegnamento della storia mondiale nella scuola secondaria: appunti per un dibattito di Luigi Cajani
di Luigi Cajani
1
Il modello ottocentesco
La storia insegnata oggi nelle scuole italiane ed europee deriva da un modello
creato intorno alla metà del xix secolo: una storia che raccontava la
biografia della Nazione, e che doveva servire a costruire l’identità nazionale.
Un vero e proprio instrumentum regni, che gli stati-nazione usavano per formare,
attraverso la scuola, il buon patriota.
Questo modello di storia scolastica era sostenuto da una ricerca storica che
inseriva le varie storie nazionali in un paradigma eurocentrico fondato sulla
marginalizzazione o esclusione delle altre parti del mondo. Leopold von Ranke
poteva così intitolare Weltgeschichte la sua opera capitale, che in
realtà non si occupava che della storia dell’Europa, giacché riteneva
che
possiamo dare scarsa attenzione a quei popoli, che ancora oggi rimangono fermi ad una specie di stato di natura e che lasciano supporre, che tale sia rimasto fin dall’inizio […]. India e Cina pretendono di avere una grande antichità e hanno una cronologia che risale molto indietro nel tempo. Ma neanche i più abili cronologisti riescono a orientarcisi. La loro antichità è favolosa. Il loro stato appartiene piuttosto alla storia naturale1.
Il rapporto fra questo eurocentrismo storiografico e l’autorappresentazione
degli europei è ben chiarito da Ernst Troeltsch, il quale riteneva addirittura «impossibile
il concetto di una storia dell’umanità», poiché «non
esiste l’“umanità” in quanto soggetto storico unitario»,
dal momento che «agli ambiti extra-europei manca l’autocoscienza
storica e la cognizione critica del passato, di cui solo lo spirito europeo
ha sentito il bisogno», e quindi concludeva che solo è possibile
fare una «storia mondiale dell’Europeicità», come
forma di «autocomprensione, il più possibile unitaria, del proprio
esser-divenuto e del proprio sviluppo»2.
Questa impostazione eurocentrica della storiografia – che assumeva una
netta torsione nazionalistica nella scuola – significò una deviazione
di quel processo di modernizzazione della disciplina che era stato avviato
nella seconda metà del Settecento negli ambienti illuministi. Questo
processo, di cui la pubblicazione dell’Essai sur les mœurs di Voltaire
rappresenta una pietra miliare, fu caratterizzato dall’abbandono dei
modelli interpretativi cristiani – come quello delle Quattro Monarchie – e
dall’attenzione al resto del mondo, al di là dei tradizionali
confini europei e mediterranei. Alla modernizzazione storiografica si accompagnò anche
una modernizzazione didattica: la storia cessò infatti di essere l’ancella
delle lingue classiche, come previsto dalla Ratio studiorum dei gesuiti, e
cominciò ad avere un ruolo autonomo. Molto attivi in questa direzione
furono alcuni storici illuministi tedeschi, che scrissero manuali di storia
per l’università e la scuola3. Uno di loro, Ludwig August Schlözer,
sintetizzava efficacemente il senso scientifico e il valore politico e culturale
della nuova visione della storia con queste parole, scritte nel 1772:
In quanto storia mondiale, essa comprende tutti gli stati e tutti i popoli del mondo. Senza patria e senza orgoglio nazionale essa si estende a tutte le terre che ospitano società umane; e abbraccia con lo sguardo tutta la scena, sulla quale in qualsiasi tempo abbiano recitato gli essere umani. Per lei tutte le parti del mondo sono uguali4.
Un tale progetto cosmopolitico, tipicamente illuministico, non poteva certo
continuare ad affermarsi in un’Europa che ben presto sarebbe stata dominata
da valori nazionalistici, e venne infatti travolto dalla nuova temperie politica
e culturale.
Il modello nazionalistico dell’insegnamento della storia si è poi
diffuso anche fuori d’Europa, dando origine a un quadro frammentato e
incoerente di storie etnocentriche, piegate a interessi politici e spesso l’una
contro l’altra armate5.
In Europa peraltro questo modello ha subito un aggiustamento dopo la Seconda
guerra mondiale, quando, con lo sviluppo di varie iniziative tendenti all’unificazione
europea, al nazionalismo si è progressivamente sostituito l’eurocentrismo.
Un forte impulso in questa direzione è venuto dal Consiglio d’Europa,
che organizzò fra il 1953 e il 1958 una serie di sei convegni, allo
scopo di eliminare dai manuali di storia i pregiudizi negativi e gli atteggiamenti
polemici nei confronti degli altri stati europei, e di individuare gli elementi
di un quadro europeo della storia che sostituisse gli approcci nazionali. Uno
dei partecipanti, lo storico inglese Edward Dance, descriveva così il
nazionalismo che informava l’insegnamento della storia in Europa all’inizio
degli anni Cinquanta:
La forma più comune di questo partito preso […] deriva dall’orgoglio nazionale. Si sostiene comunemente che uno degli scopi più importanti dell’insegnamento è di inculcare il patriottismo; certi paesi pongono addirittura la formazione al patriottismo come la primissima funzione della lezione di storia. Il patriottismo in ogni caso costituisce il migliore aspetto del nazionalismo, ed è bene che appaia nei libri di storia […]. Ma l’orgoglio patriottico può facilmente scivolare nell’arroganza nazionalistica. […] I programmi nazionali dell’insegnamento storico sottolineano legittimamente la grandezza della patria; ma essi sono quasi sempre propensi a trascurare (anche se soltanto per mancanza di tempo) la grandezza degli altri popoli, il che talvolta equivale a negarla implicitamente. E naturalmente i manuali seguono i programmi, col risultato che la vanità nazionale, la quale era la causa prima del pregiudizio nel programma, si trova perpetuata e dai manuali e dagli insegnanti; in tal modo il salutare sviluppo del patriottismo arriva a trasformarsi artificiosamente nel cancro nazionalistico6.
Nel corso di questi convegni vennero formulate liste di puntuali raccomandazioni per la revisione dei manuali. Ad esempio si insistette sulla necessità di non trascurare – come di regola avveniva – Bisanzio e la Chiesa ortodossa, e neppure l’Europa settentrionale. Venne poi posto il problema della Turchia, che faceva parte del Consiglio d’Europa, e venne criticato il fatto che la grande maggioranza dei manuali considerava l’Impero ottomano soltanto come «il nemico principale della cristianità»7, mentre, secondo i delegati turchi, la sua presenza in Europa non aveva prodotto «alcun effetto sfavorevole per le nazioni europee»8. Ma erano i conflitti fra gli stati europei il punto più dolente. Si rilevò ad esempio che la Prima guerra mondiale era trattata quasi sempre da un punto di vista nazionalistico:
Il paese dell’autore del manuale è spesso dipinto come il campione di una giusta causa, l’avversario come un cercatore di contese malvagie. Le grandi tensioni internazionali che hanno afflitto l’Europa nel suo insieme dal 1904 circa al 1914 ricevono uno spazio molto minore di quello che meritino. Di conseguenza, i diversi paesi imputano la responsabilità della guerra a fattori assai diversi: qui essa è attribuita all’aggressione tedesca, là all’imperialismo inglese, altrove al desiderio francese di “revanche”9.
Un atteggiamento pernicioso per la pace fra gli stati, di fronte al quale
si raccomandava fermamente: «è tempo, in ciò che concerne
tutte le guerre, di smetterla di parlare di “responsabilità” per
parlare piuttosto di “cause”»10. Insomma, una politica di
disarmo culturale attraverso i manuali di storia.
Simile a quella del Consiglio d’Europa è stata l’attività dell’Internationales
Institut für Schulbuchverbesserung, fondato nel 1951 a Braunschweig, nella
Repubblica federale tedesca, da Georg Eckert11, che ha avuto fra le sue fondamentali
attività istituzionali l’organizzazione – talora in collaborazione
con l’unesco – di una serie di commissioni bilaterali fra storici
tedeschi e storici di altri stati europei (e anche non europei, come l’Indonesia12 e il Giappone13) per la revisione dei rispettivi manuali di storia. Queste
iniziative sono state chiaramente anche condizionate dal mutare del clima politico:
se con gli stati della nato, come la Gran Bretagna, la Francia, l’Italia14,
queste commissioni sono state costituite fin dai primi anni Cinquanta, con
quelli al di là della “cortina di ferro” si è dovuto
aspettare la fine della guerra fredda. Con la Cecoslovacchia il dialogo iniziò nel
1967, durante la Primavera di Praga, per essere ben presto interrotto con il
governo Husák e riprendere soltanto – significativamente – vent’anni
più tardi15. Con la Polonia una commissione venne invece costituita
nel 1972, dopo la normalizzazione dei rapporti fra i due stati grazie alla
firma, nel 1970, del trattato sulla linea Oder-Neiße16.
Sotto l’influenza di queste iniziative di storici, e in sintonia col
nuovo clima politico e culturale europeo, nel corso degli anni nei manuali
di storia degli stati aderenti alla Comunità economica europea l’accento
si è spostato sempre più dai vari stati nazionali all’Europa.
Come ha scritto Falk Pingel, a conclusione di una ricerca sull’immagine
dell’Europa nei manuali per la scuola media di storia, geografia ed educazione
civica di vari stati comunitari, condotta agli inizi degli anni Novanta: «Non
si può certo più dire che i manuali da noi esaminati cerchino
esplicitamente di sviluppare una coscienza nazionale: piuttosto orientano verso
valori globali, o cercano di destare la coscienza della tradizione europea
e occidentale»17.
Uno spostamento di accento certo rilevante. Ma che rimane sempre all’interno
del contesto europeo. Il resto del mondo ha continuato a restare ai margini:
i manuali di storia, tranne rare e stentate eccezioni, se ne occupano solo
quando e nella misura in cui l’Europa ci entra in contatto. E, ancora
una volta, un progetto politico, in questo caso l’europeismo, si serve
dell’insegnamento della storia per costruire il consenso. L’etnocentrismo
dei vari stati-nazione è stato sussunto dall’etnocentrismo eurocentrico.
2
La crisi del modello ottocentesco
Dall’inizio degli anni Novanta il modello ottocentesco dell’insegnamento
della storia è entrato in una fase di crisi. Da più parti − a
livello internazionale − si sta infatti discutendo sulla necessità di
sostituirlo con uno che abbia come quadro la storia dell’intera umanità e
come obiettivo pedagogico non la formazione di identità collettive,
ma l’acquisizione di strumenti di analisi delle società umane,
passate e presenti.
Le motivazioni di questa crisi sono di varia natura: storiografica, filosofica,
sociale e didattica. In primo luogo va tenuta presente quella rivoluzione storiografica
che è rappresentata dagli studi sul sistema-mondo, una rivoluzione sviluppatasi
soprattutto negli usa, e che ha portato gli storici a non fissare più l’attenzione
principalmente sui vari stati, ma a studiare i vari eventi in un contesto mondiale.
Al pionieristico The Rise of the West di William H. McNeill, pubblicato nel
1963, sono seguiti via via studi sempre più numerosi, che hanno introdotto
nuovi paradigmi e nuovi temi di ricerca: per citarne solo alcuni, quelli di
Leften L. Stavrianos, Fernand Braudel, Immanuel Wallerstein, Janet L. Abu-Loughod,
André Gunder Frank, Alfred W. Crosby, Philip D. Curtin18. Negli anni
Novanta questo settore di studi ha raggiunto la piena maturazione, segnata
dalla pubblicazione, dal 1990, del “Journal of World History” da
parte della World History Association, e dal ruolo centrale che esso ha avuto
al xix Congresso internazionale di Scienze storiche, tenuto ad Oslo nel 2000,
dove il primo dei tre temi principali fu appunto: Perspectives on Global History:
Concepts and Methodology.
Sul piano filosofico è il cosmopolitismo che torna a levare la voce,
nel contesto del dibattito sulla società globale19 e sulla natura dell’identità collettiva
e individuale, e a guardare all’umanità intera come soggetto della
storia. Interessanti e significative, per il momento in cui sono state scritte,
sono in tal senso le riflessioni contenute in un rapporto sull’educazione
nel xxi secolo preparato fra il 1993 e il 1996 su incarico dell’unesco
da una commissione presieduta da Jacques Delors:
L’educazione […] deve cercare di rendere gli individui coscienti delle proprie radici e fornire specifici punti di riferimento che consentano loro di definire la loro collocazione nel mondo, ma dovrebbe insegnare loro anche il rispetto per le altre culture. Alcune discipline sono sotto questo aspetto di cruciale importanza. La storia, per esempio, è servita spesso a rafforzare un senso di identità nazionale mettendo in risalto differenze ed esaltando un sentimento di superiorità, essenzialmente perché l’insegnamento della storia è stato basato su una prospettiva non scientifica. La comprensione degli altri […] rende possibile una migliore conoscenza di se stessi: ogni forma d’identità è complessa, perché gli individui vengono definiti in relazione ad altre persone, sia individualmente che collettivamente, e ai vari gruppi di appartenenza si deve fedeltà, secondo un modello continuamente mutevole. Lo scoprire che vi sono molte di queste appartenenze, al di là di certi gruppi relativamente ristretti come la famiglia, la comunità locale o anche la comunità nazionale, ispira la ricerca di comuni valori che possono servire come fondamento alla «solidarietà intellettuale e morale dell’umanità» proclamata dalla Costituzione dell’unesco20.
Viene qui riproposto dunque l’ideale irenico dell’unesco, espresso
fra gli altri da Lucien Febvre in un rapporto scritto nel 1949, nel quale auspicava
l’abbandono del modello nazionale dell’insegnamento della storia
per sostituirlo con una «storia mondiale […] non politica» e «consacrata
alla pace»21.
Le altre due motivazioni che spingono verso un insegnamento della storia mondiale
sono direttamente collegate all’esperienza della scuola. In primo luogo
la trasformazione in senso multiculturale di molte società: fenomeno
centrale negli usa e in Canada, si è diffusa ormai anche in Europa,
anche se con tempi e in misura assai diversi da stato a stato, e ha posto una
sfida non solo sul piano delle politiche sociali ma anche su quello educativo,
sia in generale per quanto riguarda tutte le scienze umane, sia in particolare
per quanto riguarda la storia. Ampliare la conoscenza del passato, oltre che
del presente, delle culture non europee è considerato da molti insegnanti
la base più efficace per un insegnamento interculturale che è ineludibile
per abbattere i pregiudizi, migliorare la comprensione reciproca e favorire
l’integrazione degli immigrati.
Vi è infine il fatto che l’opinione pubblica, sollecitata quotidianamente
dai mass-media, è ormai consapevole del fatto che tutti i principali
problemi politici, economici, sociali ed ecologici del presente hanno una dimensione
mondiale, e questa consapevolezza la spinge a interrogare anche il passato
su scala mondiale. La scuola quindi si trova a dover rispondere a una nuova
domanda sociale di sapere storico.
3
La “World History” negli usa
Dopo essersi affermata a livello accademico negli usa, la storia mondiale
ha conseguito proprio in quel paese il suo primo successo nell’ambito
della scuola, dopo un lungo travaglio che ha investito il mondo della politica
e della cultura.
Negli anni Ottanta si sviluppò un ampio dibattito sulla cattiva qualità complessiva
della scuola statunitense, che portò il presidente George H. Bush a
lanciare nel 1990 un programma per definire degli standard nazionali nelle
seguenti materie: matematica, scienze, lingua inglese, arte e storia22. L’insegnamento
della storia in particolare era al centro di vivaci polemiche, per ragioni
politiche e sociali. Negli usa ci sono due curricoli separati di storia, uno
di storia statunitense e uno di storia «non statunitense». Tradizionalmente
il primo era caratterizzato dall’attenzione per l’élite
wasp, mentre il secondo era una storia della Western Civilization, sostanzialmente
simile al modello eurocentrico insegnato in Europa. Negli anni Ottanta questa
impostazione della storia statunitense venne vivacemente messa in discussione
dai gruppi etnici di origine non europea, in particolare gli afroamericani.
Al posto del monoculturalismo fino ad allora imperante si ebbe così un
multiculturalismo conflittuale23. Per quanto poi riguarda l’altra parte
della storia, una visione occidentale del mondo appariva ormai inadeguata a
capire la realtà del presente. In risposta a questa crisi il National
Center for History in the School, che preparò gli standard di storia,
decise l’inclusione nella storia statunitense dei gruppi sociali ed etnici
fino ad allora trascurati, e per la storia non statunitense la costruzione
di un vero e proprio quadro mondiale. Questi nuovi programmi, i National Standards
for History, vennero pubblicati nel 1994, suscitando un vasto e acceso dibattito.
Durissime critiche vennero da parte dei repubblicani, che li accusarono di
denigrare gli usa e l’Occidente a favore di culture non europee. Bob
Dole, futuro candidato presidenziale per i repubblicani, dichiarò al
meeting annuale dell’American Legion nel 1995:
Fra i responsabili del sistema educativo, a tutti i livelli – e in maniera particolarmente evidente nei National History Standards – è in corso una sorprendente campagna per accusare l’America e rifiutare le idee e le tradizioni dell’Occidente. Lo scopo dei National History Standards sembra essere non quello di insegnare ai nostri figli i fatti essenziali della nostra storia, ma di denigrare la storia dell’America, e di abbellire e magnificare le altre culture24.
La violenza dei toni di questa campagna era motivata anche dalle contingenze
politiche: i repubblicani, che nelle elezioni dell’autunno precedente
avevano conquistato la maggioranza, volevano mettere in discussione il ruolo
del governo democratico in campo scolastico. Il Senato, dove i repubblicani
avevano la maggioranza, bocciò il testo dei National Standards for History.
Ma ben presto le acque si calmarono e una nuova versione25, che conteneva alcune
modifiche che non tradivano affatto l’impostazione precedente, venne
approvata e pubblicata nel 1996. Al di là delle contingenze politiche,
questo episodio mostra che i valori etnocentrici e la volontà di usare
la storia come strumento di formazione identitaria collettiva rappresentano
il principale ostacolo ad un insegnamento della storia mondiale.
Per valutare l’influenza che i National Standards hanno sulla pratica
didattica statunitense va ricordato che essi non sono obbligatori, ma solo
orientativi, perché negli usa ogni stato è autonomo in materia
scolastica e può decidere se e in che misura uniformare i propri programmi
scolastici a questi National Standards federali. Il che è avvenuto finora
solo in alcuni casi. Però questi National Standards, oltre a rappresentare
un impulso rilevante al ripensamento dell’insegnamento della storia,
sono efficaci anche perché hanno influenzato i corsi per l’Advanced
Placement, che rappresenta la filiera d’eccellenza della scuola secondaria
superiore statunitense e le cui prove d’esame sono unificate a livello
federale26. Il numero dei candidati all’esame di World History è in
costante crescita (20.955 nel 2002, quando c’è stata la prima
edizione, 34.286 nel 2003 e 47.558 nel 2004), a riprova dell’interesse
che suscita questa visione della storia. Un successo che sta impegnando scuole
e università in un intenso lavoro di formazione degli insegnanti27.
4
Il dibattito italiano sull’insegnamento della storia mondiale
Poco dopo la conclusione della vicenda statunitense, anche in Italia si aprì nel
2001 il dibattito sull’insegnamento della storia mondiale, in occasione
della riforma generale del sistema scolastico fatta dal governo di centro-sinistra,
sotto i ministri della Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer e Tullio De Mauro.
Una commissione nominata da quest’ultimo, e nella quale erano presenti,
fra gli altri, storici, geografi, sociologi ed economisti, mise a punto un
curricolo di storia mondiale per sostituire l’impostazione eurocentrica.
Nella sua parte centrale, dal taglio cronologico e svolta dal quinto al nono
anno, cioè fino alla fine della scuola dell’obbligo, questo curricolo
era impostato su un quadro generale di storia mondiale, nel quale si inserivano
successivamente le storie europea, nazionale e locale. Queste ultime tre dimensioni
non venivano dunque affatto trascurate, anzi, erano oggetto di grande attenzione,
come è opportuno che sia, giacché l’insegnamento della
storia deve fornire agli studenti informazioni particolarmente ampie sul contesto
nel quale vivono. Precisava infatti una nota esplicativa: «saranno oggetto
di approfondimento le civiltà classiche di Grecia e Roma, la formazione
del sistema degli Stati europei, quali temi essenziali per la costruzione del
patrimonio culturale del cittadino italiano ed europeo»28.
La differenza – fondamentale – rispetto al precedente modello etnocentrico
sta dunque nel quadro generale di riferimento, il quadro mondiale, che collega
le storie particolari, italiana ed europea, al contesto mondiale.
A differenza di quella statunitense, l’esperienza italiana si è risolta
in un fallimento. Decisiva è stata la vittoria elettorale della coalizione
di centro-destra guidata da Silvio Berlusconi, il 13 maggio 2001: il nuovo
ministro dell’Istruzione, Letizia Moratti, ha bloccato la riforma della
scuola del precedente governo, ormai pronta per entrare in vigore, e l’ha
sostituita con un’altra, in cui il curricolo di storia è ispirato
ai valori dell’identità nazionale italiana e dell’eurocentrismo29.
Comunque, prima di essere travolto politicamente, il curricolo di storia mondiale
aveva suscitato una forte polemica fra gli storici italiani, che ebbe una grande
risonanza sulla stampa30. L’argomento fondamentale dei detrattori fu
che un curricolo di storia mondiale negava di per sé quella che a loro
avviso doveva essere la funzione fondamentale dell’insegnamento della
storia, quella appunto che gli attribuiva il modello ottocentesco. Come affermava
ad esempio con chiarezza Rosario Villari: «Uno studio della storia coincide
con l’esigenza di conoscere approfonditamente l’identità della
propria civiltà, della nazione e della comunità civile alle quali
si appartiene»31. Argomentazione, questa, sviluppata in un curricolo
alternativo32, redatto da Girolamo Arnaldi, Piero Bevilacqua, Massimo Firpo,
Cosimo Damiano Fonseca, Nicola Tranfaglia e Giovanni Vitolo appena venne reso
noto, nel febbraio 2002, il curricolo della commissione De Mauro. Essi scrivevano
che «velleitaria è […] la pretesa di estendere lo studio
ad una dimensione mondiale per far sì che la storia d’Europa e
quella degli altri continenti siano posti sullo stesso piano», e che «la
necessaria apertura multiculturale può e deve avvenire solo muovendo
dalla conoscenza della propria cultura».
Ancora una volta, quindi, la contrapposizione fra cosmopolitismo ed etnocentrismo.
Ma, accanto a questa motivazione di natura politico-educativa, nel rifiuto
della storia mondiale ce n’è anche un’altra, propria della
cultura storiografica italiana, come ha messo in luce Giuseppe Ricuperati.
Egli, pur riconoscendo che questo curricolo ha rappresentato un’«interessante
e dignitosa esperienza»33, rileva che esso venne percepito dagli storici
che lo avversarono come «una minaccia per l’identità della
disciplina»34, giacché «non solo manca una vera tradizione
di World History nella ricerca italiana, ma è ancora del tutto recente
una prospettiva storica “transnazionale”»35.
Il modello etnocentrico ottocentesco continua dunque a prevalere in Italia,
sia a livello di ricerca che di insegnamento36. Ricuperati conclude la sua
analisi rimproverando appunto agli estensori di questo curricolo di non aver
tenuto conto della realtà storiografica italiana e di essersi spinti
troppo in avanti. Indubbiamente i contesti culturali nazionali sono importanti
per il successo o il fallimento di un progetto come questo, e ne va tenuto
conto. Ma credo che sia tempo che anche gli storici escano dai contesti nazionali,
per aprirsi anche loro, come gli altri scienziati, ad un contesto mondiale:
cosa che Geoffrey Barraclough auspicava già trent’anni fa37. E
credo pure che in una fase di transizione, come questa, siano opportune delle
operazioni magari audaci, ma che mirino ad accelerarla. Del resto, per indulgere
a una riflessione controfattuale, se Berlusconi non avesse vinto le elezioni,
il nuovo curricolo di storia sarebbe entrato in vigore, con il resto della
riforma della scuola, e la storia mondiale sarebbe ora necessariamente oggetto
di dibattito anche fra gli storici italiani, come è avvenuto per la
storia del Novecento dopo il cosiddetto “Decreto Berlinguer”38.
5
La via tedesca alla storia mondiale
La Germania rappresenta un caso diverso rispetto alle esperienze burrascose degli usa e dell’Italia. Il Georg-Eckert-Institut ha lanciato nel 2002 un progetto per introdurre la dimensione mondiale nell’insegnamento della storia dei vari Länder, i quali, come gli stati negli usa, sono autonomi in materia scolastica39. Il progetto mira ad un progressivo superamento dell’eurocentrismo attraverso l’inserimento di questioni transnazionali, come i rapporti politici ed economici dell’Europa con il resto del mondo dopo il xv secolo, viste da un punto di vista non solo europeo. Si tratta di un approccio gradualistico alla trasformazione dell’insegnamento della storia, diverso da quello statunitense e italiano, che invece parte da una visione immediatamente e costantemente mondiale. Sul piano politico-culturale la strategia adottata in Germania può avere il vantaggio di smorzare un rifiuto immediato e pregiudiziale, che nasca dalla difesa appassionata dell’usato punto di vista etnocentrico. E in effetti la proposta del Georg-Eckert-Institut è stata accolta con interesse dal Verband der Geschichtslehrer Deutschlands. Il rischio è che in mancanza di un chiaro e completo quadro concettuale di storia mondiale, che parta dai tempi più remoti per giungere, senza essere mai abbandonato, fino ai giorni nostri, questo approccio gradualistico possa fermarsi a metà strada: cioè che l’insistenza sulle connessioni fra l’Europa e il resto del mondo porti semplicemente a un allargamento della tradizionale visione ristretta, portando sì a una migliore conoscenza di società non europee, il che soddisferebbe le esigenze di un insegnamento interculturale, ma che sul piano storiografico manterrebbe sempre il punto di vista eurocentrico come punto di vista privilegiato. Si avrebbe così un cambiamento puramente quantitativo ma non qualitativo dell’insegnamento della storia.
6
Per un curricolo transculturale di storia mondiale
Gli interventi nei vari sistemi scolastici statali per realizzare questa rivoluzione
dell’insegnamento della storia, come quelli finora illustrati, debbono
inserirsi in un contesto più vasto, necessariamente mondiale. Si tratta
di compiere su scala mondiale un’operazione analoga a quella realizzata
dal Consiglio d’Europa su scala europea: organizzare il confronto fra
storici provenienti da tutti i contesti culturali del mondo e che condividano
un progetto cosmopolitico per definire un curricolo essenziale di storia mondiale
che serva da punto di riferimento per tutti i sistemi scolastici, in modo da
superare la frammentazione attuale della storia insegnata e comporre un quadro
unitario e insieme capace di far posto alle varie storie particolari. Un curricolo,
dunque, transculturale.
Si tratta di un processo appena agli inizi. Alcune iniziative in tal senso
sono state prese dalla International Society for History Didactics, nell’ambito
delle quali ho elaborato un curricolo, di cui qui espongo i lineamenti essenziali.
Un curricolo transculturale di storia mondiale deve essere progettato su due
livelli, per venire incontro alla duplice esigenza di unitarietà sul
piano epistemologico e di flessibilità rispetto ai vari contesti scolastici.
Il primo livello, o percorso di base, comune a tutte le scuole, è costituito
da un racconto concettualmente omogeneo, tale cioè che segua la storia
dell’umanità fin dal suo inizio, che non trascuri mai nessuna
parte del mondo e che sia tenuto insieme da categorie interpretative valide
in ogni tempo e in ogni spazio. Questo livello di base dà senso e coerenza
agli approfondimenti, che in esso si inseriscono, andando a costituire il secondo
livello del curricolo: la loro scelta sarà dettata dalle esigenze culturali
e didattiche di ogni singola scuola.
Esaminiamo dapprima il percorso di base.
Per assolvere alle sue funzioni didattiche esso deve essere impostato su una
triplice continuità: concettuale, temporale, spaziale.
Per quanto riguarda la continuità concettuale, il curricolo è impostato
su due fili conduttori: l’evoluzione interna delle società umane,
in quanto soggetti del divenire storico, e le loro interazioni. Tutte le società possono
infatti essere analizzate e comparate fra di loro osservando l’insieme
complesso dei seguenti quattro elementi fondamentali che tutte le caratterizzano,
da quelle paleolitiche a quelle industriali avanzate:
1. il rapporto con l’ambiente, cioè i modi in cui gli uomini ricavano
da esso le risorse di cui hanno bisogno, dal cibo, alle materie prime all’energia;
2. le forme dell’organizzazione politica e sociale, cioè il modo
in cui le società si governano attraverso la divisione del lavoro, l’esercizio
del potere e i rapporti di genere;
3. la cultura, ovvero le espressioni artistiche, letterarie, musicali, religiose;
4. e infine la geopolitica, cioè l’interazione – pacifica
o conflittuale, con i commerci o con le guerre – fra le varie società per
il controllo delle risorse dell’ambiente.
A questo ultimo punto si lega il secondo filo conduttore della storia mondiale,
cioè la dinamica delle interazioni fra le varie società, quel
sistema di scambi che, attraverso una progressiva, anche se discontinua, intensificazione,
ha portato all’attuale fase di globalizzazione.
Mantenere la continuità temporale significa studiare queste società e
le loro interazioni seguendo un ordine cronologico, dal passato al presente,
in quanto proprio la cronologia è un elemento chiave dell’interpretazione
storica.
Mantenere la continuità spaziale, infine, significa far sì che
nessuna parte del mondo risulti mai, in nessun momento storico significativo
su scala mondiale, come una macchia bianca, priva delle informazioni essenziali
su ciò che vi avviene, sulle società che vi vivono.
Oltre ad essere impostato secondo questa triplice continuità, il percorso
di base è scandito da una periodizzazione. La definizione di una periodizzazione
mondiale si confronta con il problema che molte parti del pianeta per lunghi
periodi sono state isolate fra di loro. Ho qui adottato il criterio di individuare
in primo luogo i grandi cambiamenti nel rapporto fra l’uomo e l’ambiente
che sono stati significativi su scala mondiale: la rivoluzione neolitica e
la rivoluzione industriale, che scandiscono la storia mondiale in tre grandi
epoche:
1. l’epoca della caccia e della raccolta, in cui gli esseri umani hanno
prelevato direttamente le risorse alimentari presenti dall’ambiente;
2. l’epoca della neolitizzazione, in cui gli esseri umani hanno iniziato
a produrre le loro risorse alimentari intervenendo nei processi biologici della
natura, attraverso il controllo dei processi produttivi del mondo vegetale
(agricoltura) e animale (allevamento), e hanno cominciato a sviluppare la tecnologia
(ceramica, metalli, macchine);
3. l’epoca dell’industrializzazione, in cui gli esseri umani hanno
avviato uno sviluppo tecnologico sempre più rapido, che ha modificato
radicalmente il loro rapporto con l’ambiente.
Le prime manifestazioni di queste due rivoluzioni, neolitica e industriale,
pur se spazialmente limitate, possono essere considerate come due svolte periodizzanti
a livello planetario proprio perché il loro impatto, con tempi diversi,
più lento nel primo caso e più rapido nel secondo, ha investito
tutto il pianeta. A queste due grandi svolte nel rapporto fra uomo e ambiente
se ne aggiunge un’altra, che riguarda il secondo filo conduttore della
storia dell’umanità, quello degli scambi, strumento di unificazione
dell’Ecumene: la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo.
Su questa prima grande periodizzazione se ne inserisce una seconda, che porta
l’attenzione sulle società, sulla loro evoluzione interna, sulle
dinamiche geopolitiche.
Il risultato finale di queste operazioni periodizzanti è una scansione
in nove epoche storiche, fino al presente (cfr. tab. 1). Ad esse se ne aggiunge
una decima, che riguarda il prossimo futuro e che rappresenta didatticamente
il compimento della riflessione sul passato e sul presente e corrisponde a
una visione della coscienza storica come sintesi della percezione delle tre
dimensioni temporali.
Questa periodizzazione rappresenta la prima grande griglia concettuale, in
base alla quale gli studenti debbono potersi orientare nella storia. Esaminiamola
ora da vicino.
La prima epoca (Il processo di ominazione e il Paleolitico) contiene due fenomeni
di lunga durata e in parte diversi: il processo di ominazione e la lunga avventura
paleolitica dell’Homo sapiens sapiens. Credo sia didatticamente preferibile
trattarli insieme, sia per mostrare la compenetrazione spaziale e temporale
fra questi due fenomeni, sia perché in questa fase tutti i vari ominini
sono accomunati dallo stesso rapporto con l’ambiente, un rapporto non
produttivo, ma di prelievo diretto, attraverso lo sciacallaggio, la caccia
e la raccolta. Questa prima epoca è importante sul piano didattico anche
perché nell’ultima fase presenta il primo fenomeno realmente globale,
il popolamento del pianeta da parte dell’Homo sapiens sapiens, reso possibile
dai ponti intercontinentali creati dall’ultima grande glaciazione. La
fine di questa glaciazione, con l’isolamento del continente americano
e dell’Australia dal resto delle terre emerse e quindi la rottura plurimillenaria
dell’Ecumene, chiude questa prima epoca. È qui importante rilevare
come il passaggio da questa fase della storia umana a quella seguente, rappresentato
dalla rivoluzione neolitica, sia legato anche a un evento climatico di scala
globale. La storia del clima è infatti un tema che attraversa tutta
la storia mondiale, come una delle componenti fondamentali del rapporto fra
l’uomo e l’ambiente. Altri due temi di dimensione mondiale, significativamente
intrecciati fra di loro, risaltano in questa epoca: l’evoluzione genetica
e l’evoluzione linguistica delle popolazioni di Homo sapiens sapiens.
La seconda epoca prende appunto nome dalla rivoluzione neolitica. L’arco
temporale qui indicato, dal ix al iv millennio a.C., serve a mettere in rilievo
i diversi momenti e i diversi tempi in cui la rivoluzione neolitica iniziò e
si sviluppò nelle varie parti del pianeta: con l’agricoltura,
seccagna e irrigua, nella Mezzaluna fertile, nella valle del Nilo, nella valle
dell’Indo, nella valle del Fiume Giallo, nell’Asia sudorientale,
nell’America centrale e nelle Ande, e con il nomadismo pastorale nelle
steppe dell’Asia centrale e nella penisola araba.
Queste prime due epoche della storia sono di regola trascurate nell’insegnamento
della storia: sono considerate come un prologo – non a caso definito “preistoria” – sul
quale soffermarsi solo brevemente, per poi passare alla storia vera e propria,
quella che ha inizio con la scrittura. Si tratta di un errore concettuale molto
grave, che si lega alla contrapposizione fra “civiltà” e “barbarie”,
all’idea che ci siano “popoli con la storia” e “popoli
senza storia”. Invece proprio queste due epoche debbono essere oggetto
di grande attenzione in un curricolo di storia, perché consentono di
far apprendere fin dall’inizio quelle categorie interpretative delle
società e dei rapporti fra di loro, che poi verranno costantemente utilizzate
nel corso degli studi, e che fondano una visione unitaria dell’umanità nel
tempo e nello spazio.
Nella terza epoca (Dalle città agli imperi) l’accento è posto
su un particolare aspetto degli esiti della rivoluzione neolitica, cioè lo
sviluppo delle società sedentarie attraverso forme di insediamento e
di controllo del territorio sempre più complesse, dai villaggi alle
città fino alla costituzione di stati e di imperi. Naturalmente questa
focalizzazione non deve far dimenticare i nomadi in Eurasia e il loro rapporto
con le società sedentarie. Questa terza epoca è concettualmente
omogenea alla quarta (Imperi fra crisi e ristrutturazioni), che ha anch’essa
come elemento caratterizzante le vicende interne ed esterne delle strutture
statali. Sotto questo punto di vista, queste due epoche possono essere considerate
una sola, il cui terminus ad quem è rappresentato dalle scoperte geografiche
europee del xv secolo, che danno il via a una nuova fase del processo di interconnessione
fra le varie parti del pianeta. Una scansione intorno al v secolo è significativa
solo per il sistema Eurasia e Africa settentrionale, dove si assiste alla crisi
generale e quasi contemporanea degli imperi formatisi nell’epoca precedente,
una crisi che rappresenta anche uno dei momenti forti dello scontro fra nomadi
e sedentari in quest’area. Quando volgiamo lo sguardo all’Africa
subsahariana e alle Americhe, osserviamo invece che il processo di urbanizzazione
e di costituzione degli stati ebbe tempi e modi assai diversi. Queste due epoche,
considerate insieme o separatamente, a seconda delle esigenze della programmazione
didattica, consentono dunque di mostrare il diverso ritmo di sviluppo della
rivoluzione urbana in queste grandi aree del pianeta, e di analizzare le cause
delle loro profonde differenze economiche, tecnologiche e demografiche, che
avranno un peso determinante nel momento in cui l’espansione europea
le porrà violentemente in contatto fra di loro.
Il titolo della quinta epoca (L’espansione europea nel mondo e l’inizio
della globalizzazione) vuole appunto sottolineare gli effetti della scoperta
dell’America da parte di Colombo, come momento fondamentale della più generale
espansione europea. La scoperta dell’America da parte degli Europei ricompone
infatti la rottura dell’Ecumene che si era creata con la fine dell’ultima
glaciazione, avviando uno scambio di esseri umani, piante, animali, agenti
patogeni di portata planetaria, e certamente – quale che ne sia l’interpretazione
in termini sistemici (penso qui in particolare al modello di economia-mondo
proposto da Immanuel Wallerstein) – mette in moto il processo di trasformazione
economica e geopolitica da cui nasce il mondo attuale.
A questo grande cambiamento planetario sul piano delle interconnessioni fra
le società, ne segue un altro che riguarda il rapporto fra l’uomo
e l’ambiente: la rivoluzione industriale, che dà il titolo all’epoca
successiva, la sesta. In questo contesto verranno trattate anche altre tre
rivoluzioni, variamente connesse fra di loro: quella demografica, quella agricola
e quella politica, con la fine dell’Ancien Régime in Europa e
poi dei poteri politici tradizionali fuori d’Europa, sotto l’impatto
del colonialismo. La combinazione di queste rivoluzioni ha infatti avuto un
impatto mondiale che ha cambiato completamente e irreversibilmente il quadro
mondiale precedente.
Una volta fissate le coordinate economiche di questa grande trasformazione,
nella definizione delle due epoche successive vengono prese in considerazione
coordinate geopolitiche. Si nota in questa parte finale del curricolo una particolare
attenzione alla storia più recente, didatticamente necessaria giacché sui
tempi più vicini, come sugli spazi più vicini, è importante
che il futuro cittadino abbia informazioni più ampie che su quelli più lontani,
in previsione dell’azione politica nella società40. La settima
epoca (Dall’imperialismo alle guerre mondiali) racchiude in un’unica
fase l’affermazione degli stati europei nel controllo del pianeta, attraverso
il colonialismo, e le due guerre mondiali, che rappresentano l’acme e
la fine dei conflitti europei per l’egemonia e il tentativo del Giappone
di egemonizzare l’Estremo Oriente. Il fallimento di questi progetti egemonici
porta all’emergere dell’urss e degli usa come superpotenze. Il
bipolarismo è così la chiave di lettura dell’ottava epoca
(Il mondo diviso in due blocchi), che finisce con l’abbattimento del
muro di Berlino.
La penultima epoca tratta della storia di un presente che inizia appunto con
il 1989, la data che segna la più grande trasformazione geopolitica
dopo la fine della Seconda guerra mondiale e che ha inaugurato una fase di
unipolarismo usa che è ancora in corso. L’ultima epoca è il
prossimo futuro, ovvero i possibili sviluppi nei vari settori che sono stati
costantemente tenuti presenti nel corso del curricolo: il rapporto con l’ambiente,
le strutture sociali, la scienza e la tecnologia, gli scambi e i conflitti,
con particolare attenzione alla dimensione globale di questi problemi. In questa
fase conclusiva dello studio della storia vanno tirate le fila dello studio
sul passato, combinando queste riflessioni con le previsioni a breve e medio
termine su clima, ambiente, demografia, economia e così via, che vengono
dalle ricerche futurologiche.
Esaminiamo ora l’articolazione didattica del curricolo, sia al livello
di percorso di base che a quello degli approfondimenti.
Questo secondo livello ha un duplice obiettivo didattico: da un lato l’approfondimento
di alcuni aspetti del percorso di base, sia per quanto riguarda le varie società sia
per quanto riguarda i temi trasversali di lunga durata, e dall’altro
il raccordo del percorso di base con la realtà sociale e culturale di
ogni scuola, tenendo conto del contesto spaziale (locale, statale, macroregionale)
in cui essa si trova. Infatti, l’insegnamento della storia deve fornire,
all’interno di un quadro mondiale di conoscenze di base, altre conoscenze
più dettagliate sul contesto in cui vivono gli studenti, in modo che
essi sappiano riconoscerne i tratti storici: società, poteri, arti,
ambiente, cultura. Per fare un esempio, le grandi linee della storia dell’Impero
romano, dell’espansione dell’Islam, dell’Impero inca, o della
restaurazione Meiji non possono essere ignorate in nessun curricolo di storia,
ma certo questi temi verranno trattati con un diverso grado di approfondimento
in una scuola di Roma, del Cairo, di Lima o di Tokyo.
I due livelli del curricolo devono dunque essere articolati attraverso la combinazione
delle diverse scale spaziali della storia, partendo dalla scala mondiale per
passare poi a orizzonti via via più ristretti: le grandi aree macroregionali,
gli stati, le dimensioni locali.
I moduli di approfondimento, che formano il secondo livello, sono il luogo
privilegiato, anche se non esclusivo, della didattica attiva, variamente calibrata
secondo l’età degli studenti, sotto forma di laboratorio storico,
per sviluppare il loro spirito critico mettendoli in contatto con le procedure
della ricerca storica e con la storiografia. Questi approfondimenti, a differenza
del percorso di base, hanno un carattere modulare, nel senso che sono modificabili
e intercambiabili, e debbono essere scelti in modo da combinare aspetti operativi
(lavoro con fonti testuali, iconografiche, audiovisive, seriali, o con testi
storiografici) e aspetti tematici, propriamente storici o interdisciplinari.
In tal modo è possibile stabilire un dialogo tra percorso di base e
moduli di approfondimento. Ad esempio, è possibile in tal modo trattare
più a fondo società già indagate nel percorso di base,
come la Grecia classica o la Cina Ming, oppure sviluppare temi di lunga durata,
come demografia, istituzioni, religioni, mentalità, famiglia, guerre,
arti figurative, utilizzando di volta in volta le fonti più adatte in
modo da toccare, alla fine del curricolo, tutti i temi e le tipologie di fonti
più significativi.
Infine, alcune considerazioni sugli strumenti didattici e sulla programmazione
interdisciplinare.
Per quanto riguarda gli strumenti didattici, un ruolo fondamentale in questo
curricolo lo riveste la cartografia storica. La cartografia storica è uno
strumento particolarmente potente, proprio per la retorica propria dell’immagine41,
che ha una forza spesso superiore a quella del testo, perché più facilmente
viene recepita meno criticamente. È uno strumento dunque da utilizzare
in abbondanza ma con molta attenzione. Una cartografia infatti che si concentri
solo su una parte del pianeta ne produce un’immagine mentale parziale
e distorta, e ciò avviene regolarmente, giacché l’etnocentrismo
dei manuali di storia si rispecchia nella loro cartografia e negli atlanti
storici42.
In un curricolo di storia mondiale è perciò necessario che l’immagine
del mondo intero sia presente fin dall’inizio alla mente degli studenti,
e costantemente ripresa successivamente. Ciò si ottiene con l’uso
regolare di planisferi tematici. Il planisfero deve essere il punto di riferimento
costante, sia per rappresentare fenomeni storici di scala mondiale, sia come
contesto in cui inserire carte parziali di approfondimento. Nel percorso di
base una serie di planisferi tematici deve perciò sintetizzare lo stato
del mondo nelle varie epoche, rispetto ai fenomeni più significativi,
mettendo in luce non solo i cambiamenti più importanti ma anche le permanenze.
Un planisfero dedicato – ad esempio – al rapporto fra l’uomo
e l’ambiente nel corso della seconda epoca (La rivoluzione neolitica)
mostrerà la diffusione dell’agricoltura, lo sviluppo del nomadismo
pastorale e la permanenza delle società di caccia e raccolta; un altro
dedicato allo sviluppo degli stati nel corso della terza epoca (Dalle città agli
imperi), ne mostrerà la localizzazione, mettendo in rilievo al tempo
stesso quali sono, altrove, diverse forme di controllo del territorio; e ancora
un altro planisfero dedicato allo sviluppo dei commerci nel corso della quarta
epoca (Imperi fra crisi e ristrutturazioni) ne mostrerà l’intensità e
la natura, ma anche la mancanza di collegamenti fra alcune zone del pianeta.
Da questi planisferi tematici deriveranno carte parziali, in forma di ingrandimenti
dedicati alle principali società. Nella terza epoca si porrà attenzione
ad esempio al Vicino oriente antico, all’Egitto, alle steppe dell’Asia
centrale, alla Grecia classica, all’antica Roma e al suo Impero, all’India
Maurya, all’unificazione della Cina, ai regni di Kush e Meroe e all’espansione
bantu in Africa, alle Americhe con la cultura di Adena, con gli Olmechi, con
il periodo preclassico dei Maya, con le società Moche e Nazca, e con
Chavín, e infine alle isole del Pacifico con la prima fase della colonizzazione.
Nella quarta epoca si seguirà l’evoluzione degli eventi già ricordati
in queste aree geografiche, ma si aggiungeranno degli ingrandimenti cartografici
sul Giappone, sull’Indocina col regno Khmer, e sugli Arabi. E così via.
La combinazione di planisferi tematici e di carte parziali, ad essi connesse, è così anche
uno strumento per collegare il primo e il secondo livello del curricolo.
L’uso costante della cartografia storica suggerisce immediatamente una
programmazione interdisciplinare con la geografia. Il rapporto fra queste due
materie scolastiche è in realtà reciprocamente necessario, nonostante
sia spesso ignorato dai programmi ufficiali: nel caso in cui comunque entrambe
siano presenti, come nella scuola di base secondo la riforma Moratti, gli insegnanti
possono abbastanza agevolmente costruire una programmazione interdisciplinare.
I vantaggi sono molti: intanto si può ottenere un risparmio di tempo,
ma si può anche giocare sul rapporto tra passato e presente, che è molto
efficace sul piano didattico.
Un’altra ipotesi interdisciplinare molto promettente è quella
fra storia e arti figurative. Anche queste sono normalmente insegnate da un
punto di vista etnocentrico: solo le società europee sembrano avere
avuto un’architettura, una scultura, una pittura. E invece le espressioni
artistiche sono una delle caratteristiche costanti di tutte le società umane,
fin dai tempi più antichi. Non è dunque possibile descrivere
nessuna società senza restituirne anche la dimensione estetica. Sviluppare
questo aspetto attraverso un rapporto interdisciplinare fra storia e storia
dell’arte consente di rafforzare e approfondire quanto viene mostrato
nel curricolo di storia, e dà una dimensione nuova all’insegnamento
della storia dell’arte, aprendolo ad esempio alle contaminazioni, come
l’arte del Gandhara, o l’influsso dell’arte giapponese o
africana sull’Europa dell’Otto-Novecento.
Note
* Questo articolo è una rielaborazione della relazione che ho presentato
con il titolo Teaching World History in Secondary Schools: The Present Debate
alla World History Association Annual Conference, tenuta a Fairfax, va (usa)
dal 17 al 20 giugno 2004.
1. L. von Ranke, Idee der Universalhistorie, in Vorlesungs-Einleitungen, hrsg.
von V. Dotterwich,W. P. Fuchs, (L. von Ranke, Aus Werk und Nachlass, Band iv),
R. Oldenbourg Verlag, München-Wien 1975, p. 85.
2. E. Troeltsch, Lo storicismo e i suoi problemi, iii, Guida, Napoli 1993,
pp. 23-8, passim (ed. or. Der Historismus und seine Probleme, Mohr, Tübingen
1922).
3. Per una succinta presentazione di alcuni di questi manuali rimando al mio
articolo Die Welt als Horizont. Plädoyer für den Unterricht der Weltgeschichte,
in Internationale Verständigung. 25 Jahre Georg-Eckert-Institut für
internationale Schulbuchforschung in Braunschweig, hrsg. von U. A. J. Becher,
R. Riemenschneider, unter Mitwirkung von Roderich Henrÿ, (Studien zur
internationalen Schulbuchforschung, Band 100), Verlag Hahnsche Buchhandlung,
Hannover 2000, pp. 75-82.
4. A. L. Schlözer, Vorstellung seiner Universal-Historie, bey Johann Christian
Dieterch, Göttingen und Gotha 1772, p. 28 (ristampa anastatica in A. L.
Schlözer, Vorstellung seiner Universal-Historie (1772-73) mit Beilagen,
hrsg., eingeleitet und kommentiert von H. W. Blanke (Beiträge zur Geschichtskultur,
Band 4, Herausgeber Jörn Rüsen), Margit Rottmann Medienverlag, Hagen
1990).
5. Cfr. in proposito M. Ferro, Comment on raconte l’historie aux enfants à travers
le monde entier, Payot, Paris 1986 e G. Procacci, La memoria controversa. Revisionismi,
nazionalismi e fondamentalismi nei manuali di storia, am&d edizioni, Cagliari
2003.
6. É. Bruley, E. H. Dance (a cura di), Per una storia europea nella
scuola, con la collaborazione di A. Puttemans, Prefazione di M. Bendiscioli,
A. W. Sitthoff, Leiden 1960, pp. 26 s.
7. Ivi, p. 38.
8. Ivi, p. 39.
9. Ivi, p. 50.
10. Ibid.
11. Nel 1953 l’Istituto prese il nome di Internationales Schulbuchinstitut
e nel 1975, dopo la morte del suo fondatore, di Georg-Eckert-Institut für
internationale Schulbuchforschung.
12. Indonesien-Deutschland. Empfehlungen der indonesischen-deutschen Historikerkonferenz,
Braunschweig 1957, Sonderdruck aus dem Internationalen Jahrbuch für Geschichtsunterricht
1959, Albert Limbach Verlag, Braunschweig s.d.
13. K.-E. Jeismann, E. Hillers (hrsg.), Deutschland und Japan im Spiegel ihrer
Schulbücher, (Studien zur internationalen Schulbuchforschung, Schriftenreihe
des Georg-Eckert-Instituts, Band 31), Georg-Eckert-Institut für internationale
Schulbuchforschung, Braunschweig 1982.
14. Le raccomandazioni della commissione italo-tedesca sono state pubblicate
in 1000 Jahre deutsch-italienischer Beziehungen. Die Ergebnisse der deutsch-italienischen
Historikertagungen in Braunschweig (1953), Goslar (1956), Siena (1957), Bamberg
(1958) und Erice (1959), (Schriftenreihe des Internationalen Schulbuchsinstituts,
5. Band), Albert Limbach Verlag, Braunschweig 1960.
15. V. ?apek, H. Lemberg, U. Meyer, R. Mayer, Deutsch-tschechische Schulbuchgespräche,
in Internationale Verständigung, cit., pp. 210-8.
16. Gemeinsame deutsch-polnische Schulbuchkommission, Zum wissenschaftlichen
Ertrag der deutsch-polnischen Schulbuchkonferenzen der Historiker 1972-1987
(xx. deutsch-polnische Schulbuchkonferenz der Historiker 1-6 Juni 1987 in Pozna?
(Posen), (Schriftenreihe des Georg-Eckert-Instituts für internationale
Schulbuchforschung, Band 22/xi).
17. F. Pingel, Befunde und Perspektiven – eine Zusammenfassung, in F.
Pingel (hrsg.), Macht Europa Schule? Die Darstellung Europas in Schulbüchern
der Europäischen Gemeinschaft (Studien zur internationalen Schulbuchforschung,
Schriftenreihe des Georg-Eckert-Instituts, Band 84), Diesterweg, Frankfurt
am Main 1995, p. 287.
18. Per un completo panorama storiografico si veda P. Manning, Navigating World
History. Historians Create a Global Past, Palgrave Macmillan, New York 2003.
19. Cfr. ad esempio U. Beck, Der kosmopolitische Blick oder: Krieg ist Frieden,
Suhrkamp, Frankfurt am Main 2004.
20. J. Delors, Nell’educazione un tesoro (Rapporto all’unesco della
Commissione Internazionale sull’Educazione per il xxi secolo), Armando,
Roma 1997 (ed. or. Learning: The Treasure within. Report to the unesco of the
International Commission on Education for the Twenty-first Century, unesco,
1996), pp. 41 s.
21. Cfr. G. Allardyce, Toward World History: American Historians and the Coming
of the World History Course, in “Journal of World History”, i (1990),
n. 1, pp. 23-76, qui p. 31.
22. G. B. Nash, C. Crabtree, R. E. Dunn, History on Trial. Culture Wars and
the Teaching of the Past, Alfred A. Knopp, New York 1999, pp. 105, 150-5.
23. Ivi, p. 99.
24. Ivi, p. 245.
25. National Standards for History, Basic Edition, National Center for History
in the Schools, Los Angeles 1996.
26. Cfr. Access to Excellence. A Report of the Commission on the Future of
the Advanced Placement Program, The College Board, s.l. 2001.
27. Cfr. P. Lopes Don, Establishing World History as a Teaching Field: Comments
from the Field, in “The History Teacher”, vol. 36, n. 4 (August
2003), pp. 505-25.
28. G. Cerini, I. Fiorin (a cura di), I curricoli della scuola di base. Testi
e commenti, Tecnodid, in collaborazione con Zanichelli Editore, Napoli 2001,
p. 111, n. 2.
29. Cfr. il decreto legislativo 19 febbraio 2004, n. 59, in “Gazzetta
Ufficiale della Repubblica Italiana”, 2 marzo 2004: Definizione delle
norme generali relative alla scuola dell’infanzia e al primo ciclo dell’istruzione,
a norma dell’articolo 1 della legge 28 marzo 2003, n. 53.
30. Per una succinta ricostruzione di questa vicenda rimando al mio articolo
L’insegnamento della storia in mezzo al guado: alcune puntualizzazioni
sul dibattito italiano attuale, in “Società e Storia”, 103,
2004 , pp. 137-43.
31. P. Conti, Villari: caro ministro, ecco perché la tua riforma è sbagliata,
in “Corriere della Sera”, 13 febbraio 2001.
32. Progetto per l’insegnamento della storia nella scuola di base e in
quella superiore, in “Lineatempo”, 2001, n. 1, pp. 106-12.
33. G. Ricuperati, A proposito di «Whose History?», e di uso pubblico
della storia. Lo scontro sui piani di studio negli Stati Uniti (e in Italia),
in “Rivista storica italiana”, cxv (2003), pp. 771 s.
34. Ivi, p. 772.
35. Ivi, n. 128.
36. Non mancano tuttavia anche in Italia voci attente alla storia mondiale,
fra cui quelle di P. Rossi, Verso una storia globale, in “Rivista storica
italiana”, cxiii (2001), fasc. iii, pp. 798-816, di T. Detti, Tra storia
delle donne e «storia generale»: le avventure della periodizzazione,
in “Storica”, 2004, n. 25-6, pp. 319-34, e di G. Gozzini, Dalla “Weltgeschichte” alla “world
history”: percorsi storiografici attorno al concetto di globale, in “Contemporanea”,
vii (2004), n. 1, pp. 3-37.
37. G. Barraclough, Atlante della storia 1945-1975, Laterza, Roma-Bari 1984,
p. 322.
38. Ministero della pubblica istruzione, Decreto n. 682 del 4.11.1996.
39. Cfr. M. Middel, S. Popp, H. Schissler, Weltgeschichte in deutschen Geschichtsunterricht.
Argumente und Thesen, in “Internationale Schulbuchforschung-International
Textbook Research”, xxv (2003), nn.1-2, pp. 149-54.
40. Nell’Italia repubblicana nell’ultimo anno della scuola media
e delle scuole superiori si sono studiati l’Ottocento e il Novecento,
finché il già ricordato “Decreto Berlinguer” non
gli ha assegnato il solo Novecento. Con la Riforma Moratti si è tornati
al passato, almeno per quanto riguarda l’ultimo anno della scuola di
base, corrispondente all’ex terza media (al momento in cui scrivo i programmi
per le superiori non sono ancora stati pubblicati). Altrove in Europa alla
storia contemporanea viene dato maggiore spazio che in Italia. In Francia nella
troisième, l’ultima classe del Collège, frequentata da
quattordicenni, si studia il periodo che va dal 1914 a oggi (cfr. Ministère
de l’Éducation Nationale, de l’Enseignement Supérieur
et de la Recherche - Direction des lycées et de collèges, Histoire
géographie initiation économique, classes de collèges
6e, 5e, 4e, 3e, Centre National de Documentation Pédagogique, 1997,
pp. 55-62). Successivamente lo studio della storia contemporanea prende ben
due anni: infatti nella penultima classe dei lycées (série économique
et sociale, littéraire, scientifique) si studia il periodo che va dal
1880 alla fine della Seconda guerra mondiale, e nell’ultima il periodo
dal 1945 a oggi (cfr. Ministère de l’Éducation Nationale,
de l’Enseignement Supérieur, de la Recherche et de l’Insertion
professionnelle - Direction des lycées et de collèges, Histoire
géographie classe de seconde, première et terminale, Centre National
de Documentation Pédagogique, 1995, pp. 55-60, 93-6). In Germania per
quanto riguarda la Sekundarstufe i (il ciclo intermedio fra quello elementare
e quello superiore), prendendo come riferimento il Gymnasium, che ne rappresenta
l’ordine d’élite, si osserva che in alcuni Länder nell’ultima
classe, la 10a, si studia il periodo che va dalla fine della Prima guerra mondiale
a oggi, mentre in altri si parte dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Nella Sekundarstufe ii (il ciclo superiore) l’insegnamento della storia è impostato
su approfondimenti tematici, fra i quali il xx secolo occupa uno spazio preminente
(cfr. K.-E. Jeismann, B. Schönemann, Geschichte amtlich. Lehrpläne
und Richtlinien der Bundesländer. Analyse, Vergleich, Kritik, (Studien
zur Internationalen Schulbuchforschung. Schriftenreihe des Georg-Eckert-Instituts,
Band 65), Verlag Moritz Diesterweg, Frankfurt 1989.
41. A. Brusa, Histoire-récit, histoire-image: les déplacements
de la rhétorique. Les cartes et les mythes fondateurs, in “Internationale
Schulbuchforschung - International Textbook Research”, xix (1997), n.
4, pp. 399-412.
42. D. Mittag, Schulgeschichtsatlanten - eine Quelle ethnozentrischer Selbstbilder?,
in “Internationale Schulbuchforschung - International Textbook Research”,
xxi (1999), n. 3, pp. 217-34.